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Già in altre circostanze ho scritto di come e perché dovremmo ragionare di come parliamo dei videogiochi e dei termini che usiamo. Perché i termini, le espressioni e le idee che usiamo ci dicono qualcosa di come intendiamo il videogioco e l’esperienza con esso.
Per capire, innanzitutto, e poi eventualmente per valutare se si sta facendo bene o male; se c’è un altro modo o no; se ci sono significati meno superficiali a cui non stiamo dando il giusto peso e che invece andrebbero indagati alla luce del sole.
Capita di frequente, per esempio, che quando si parla di videogiochi particolarmente coinvolgenti si dica che “questo videogioco crea dipendenza” o che “non riesco a smettere” o ancora che “è come una droga”. Parliamo dei videogiochi, in altre parole, con le stesse espressioni che usiamo per le sostanze stupefacenti.
Lo si fa, peraltro, con una connotazione positiva: un gioco da cui non riesci a staccarti è coinvolgente, interessante, “da provare”; paradossalmente, un altro videogioco da cui non ci si sente radicalmente invischiati è quasi “strano”: è un’esperienza a cui manca qualcosa.
Bada: l’ho fatto anch’io. E per molto tempo, ho parlato allo stesso modo di videogiochi da cui ero rapito: Hades e Vampire Survivors ne sono due esempi recenti.
Nell’ultimo periodo, però, mi sono chiesto se questo modo di parlare del videogioco sia un bene o un male. Se sia necessario che ci fermassimo un momento e provassimo a ragionare se è il caso di parlare del videogioco assumendo che sia positivo associarlo agli effetti – dipendenza, alienazione, evasione, una vaga mancanza di controllo sull’attività – che invece sono tipici di altre sostanze, altre situazioni, altre sfere.
Non perché di per sé io creda che parlare del videogioco in questo modo possa effettivamente rafforzare l’idea che il videogioco sia una droga al pari della cocaina. Ma proprio perché, invece, riteniamo che possa avere degli effetti così potenti, così profondamente leganti, così trascinanti, allora, forse, sarebbe il caso di indagare di più le ragioni – a livello di design, di meccaniche, di input, di storie, di grafica – che i videogiochi sfruttano per mantenerci lì, incollati a uno schermo.
Se il videogioco vinee inteso come un dialogo fra oggetto virtuale e una persona e quel dialogo viene perpetrato attraverso la stessa dialettica di chi assume sostanze stupefacenti, rimane un dialogo?
Se il videogioco viene considerato un prodotto culturale, allora va bene se “non riesco a smettere” ed “è come una droga”?
Se alcuni videogiochi nascono per parlare di qualcosa – o per lanciare un messaggio o una riflessione – va bene se non riusciamo a mantenere un rapporto più distaccato nei loro confronti?
Non credo che esista una risposta univoca a questa questione; né sono sicuro che questa sia davvero una questione, a dirla tutta. Allo stesso tempo, questa caratteristica del videogioco mi affascina e mi spaventa contemporaneamente.
Massimiliano
(Questo approfondimento è stato scritto da Massimiliano Di Marco e Franco Aquini.)
Nel 2023 usciranno nuovi videogiochi per Commodore 64, a distanza di più di quarant’anni dal suo debutto.
Se per tante persone ciò che ho appena scritto può essere una sorpresa, per altrettanto persone non lo è. Perché attorno al Commodore 64 – computer originariamente uscito nel 1982 e commercializzato fino al 1994, anno in cui la società produttrice è fallita – continua a persistere una scena di persone e attività che producono accessori, videogiochi e riviste: un impegno dalla comunità e per la comunità.
Si potrebbe dire che nonostante gli oltre quarant’anni di età, il Commodore 64 non è mai morto. Anzi, è decisamente molto vivo.
Chi ci lavora
A Pig Quest è uno dei nuovi giochi che usciranno prossimamente per Commodore 64. Ci sta lavorando, in qualità di programmatore, Antonio Savona, che è partito da un’idea che è stata proposta a Savona stesso dal fumettista belga Alain Mauricet, che ha all’attivo lavori per DC Comics e non solo.
Savona riceve spesso idee per nuovi giochi, soprattutto da persone appassionate che vorrebbero veder nascere un gioco che hanno sempre sognato. “Programmare un gioco per Commodore 64, però, non è un’impresa semplice: richiede parecchi mesi, si fa tutto a basso livello”, mi spiega al telefono.
Fin da subito, però, Savona comprese che la proposta di Mauricet era molto diversa dalle altre. “Mauricet mi ha contattato e quando ho visto la grafica pazzesca, ho detto ‘fermo, facciamo un gioco insieme’. Mi aveva mandato qualche schizzo preparatorio e poi una bozza del primo livello. Quando ho visto di cosa era capace, sono rimasto sbalordito e abbiamo iniziato: ho programmato il gioco che lui ha sempre sognato di fare”.
Quando si parla di illustrare un videogioco per Commodore 64, spesso capita che una persona molto brava nella pixel art non sia invece capace di trasporre quelle belle illustrazioni su macchina. Il motivo è semplice quanto rognoso: il Commodore 64 ha i suoi limiti, che impongono anche un certo modo di pensare il disegno stesso.
“In genere, essere un buon pixel artist non basta per esserlo anche su Commodore 64: devono essere anche programmatori e sapere cosa si può fare sulla macchina”, riassume Savona. “Ci sono molte cose che non puoi fare e devi tenerne da conto quando disegni. E lui è capace di farlo”, dice di Mauricet. “È un illustratore raro nel panorama”.