Sono uscite le recensioni di Prince of Persia: The Lost Crown, ultimo videogioco di Ubisoft, e il parere generale è stato molto positivo. Mentre scrivo questa introduzione, la media voto dalla critica è di 86: uno dei migliori risultati ottenuti da un videogioco sviluppato e pubblicato da Ubisoft da tempo. Assassin’s Creed Mirage ha una media voto di 76, mentre Avatar: Frontiers of Pandora di 72 e The Crew Motorfest di 76, per citarne alcuni.
In altre parole, il nuovo Prince of Persia è un videogioco ritenuto ottimo, prodotto da una società che nell’ultimo periodo è raccontata come fiacca, stanca e in carenza di idee. Eppure, eccolo lì: un videogioco che piace.
Cos’è successo, insomma?
Niente: è solo che le persone che hanno creato Prince of Persia: The Lost Crown, che lavorano allo studio di Montepellier di Ubisoft, sono diverse da quelle che hanno fatto Assassin’s Creed Mirage o The Crew Motorfest o Avatar: Frontiers of Pandora. Persone diverse creano videogiochi diversi, con un impatto diverso e con esiti, anche, diversi.
Non dovrebbe sorprendere. Nel mondo dei videogiochi, però, questo aspetto è sottovalutato.
Lo è soprattutto perché, più o meno da sempre, le grandi società hanno cercato di far aderire il loro marchio a quello dei videogiochi. Succedeva ai tempi di Atari – quando il buon Warren Robinett s’è inventato il primo “easter egg” (o la sua “firma” come lui preferisce chiamarlo) pur di far trovare il suo nome a chi giocava Adventure su Atari 2600 – e succede ancora oggi.
Mentre nei film spesso vengono considerati i registi (“Dal regista di Film X” è spesso usato per richiamare l’attenzione sulla nuova produzione) o gli attori e le attrici principali, nei videogiochi si guarda allo studio di sviluppo più in generale; o all’editore, addirittura.
Così mentre per i film molte persone possono sapere che c’è James Cameron o Greta Gerwig alla direzione, invece chiedere chi, per esempio, ha diretto un qualunque videogioco è una missione molto difficile – a meno che non si chiami Hideo Kojima, che però rappresenta un’anomalia perché a sua volta “Hideo Kojima” è diventato un marchio; che funziona grazie a tutte le persone che stanno attorno a lui da tanti anni.
Ciò accade continuamente come se lo studio di sviluppo o l’editore fossero un soggetto inamovibile e sempre uguale nel corso del tempo.
Naturalmente ciò è falso: i co-fondatori se ne vanno oppure cambia un importante sceneggiatore oppure una creatrice di una serie se ne va, e così via.
Si pensi, per esempio, a com’è cambiato – sotto molti aspetti – God of War Ragnarok da God of War (2018) perché nel ruolo di game director al posto di Cory Barlog c’è stato Eric Williams: idee, esperienze e mentalità diverse, com’è normale che sia. Figuriamoci se prendessimo in considerazione l’intera Sony Santa Monica.
Così come sta uscendo un altro Plants vs Zombies, videogioco del genere “tower defense” – dove bisogna difendere la propria base usando, in questo caso, le piante, ciascuna con abilità diverse, per difendersi da un’orda di nemici, in questo caso gli zombi – ma il creatore originale, George Fan, non lavora più nello sviluppatore della serie, PopCap, da molti anni.
Il marchio dell’editore e dello sviluppatore è un elemento molto meno rilevante perché, di fatto, ci dice meno di quanto potremmo pensare su quanto possa cambiare un videogioco, anche della stessa serie, da un anno all’altro; ma per ragioni di marketing il marchio dell’editore e dello sviluppatore è ciò che vuole essere infilato nella testa: esistono i videogiochi di Naughty Dog, di Bethesda, di Nintendo, di Double Fine, di Remedy Entertainment. Mentre mai penseremmo di dire “Oh, al cinema c’è il nuovo film di Paramount, dobbiamo vederlo!”
Comprendo che è difficile fare altrimenti. Sarebbe complicato pensare di stilare un lungo elenco di persone ogni volta che viene presentato un videogioco o se ne parla: io per primo, quando devo condividere l’annuncio di un nuovo videogioco, faccio riferimento allo studio che lo sta sviluppando e, se è diverso, all’editore. Però è importante, come primo passo in una direzione meno opaca, comprendere che esiste questa situazione: le persone negli studi cambiano e con essi i videogiochi che quegli studi faranno in futuro.
Aggiungo che nel farlo ci perdiamo – come già scrissi in passato – le storie personali.
A dirigere i lavori su Prince of Persia: The Lost Crown è stato Mounir Radi; la cui carriera in Ubisoft lo ha visto ricoprire il ruolo, per esempio, di lead designer in ZombiU e senior game designer in Valiant Hearts: The Great War. E prima ancora Radi è stato game designer in Rayman Raving Rabbids 2 e level designer in Ghost Recon Advanced Warfighter 2. Molti anni dopo, è game director di un nuovo videogioco della serie Prince of Persia.
Ora che lo sapete, magari la prossima volta che vedete il nome di Mounir Radi potrebbe venirvi in mente che ha contribuito significativamente alla produzione di un videogioco ben riuscito (e che magari vi è pure piaciuto).
Radi, però, è solo un esempio. Sono certo che in qualunque studio di sviluppo ci sono dozzine di persone come lui, la cui presenza o meno fa la differenza. Anche se il nome sulla copertina è lo stesso di prima.
Massimiliano
Se c’è una cosa che sta dividendo le società sul futuro dei videogiochi, questa cosa sono gli abbonamenti. Non solo per le modalità con cui approcciarli – o se farlo – ma anche sull’impatto che un eventuale futuro in cui diventassero la principale modalità di fruizione del videogioco avrebbe sulla creatività stessa.
Swen Vincke, amministratore delegato di Larian Studios (Baldur’s Gate 3), ha le idee chiare. “Qualunque sia il futuro dei videogiochi, il contenuto sarà sempre il punto principale”, ha scritto su X (ex Twitter). “Ma sarà molto più difficile avere dei buoni contenuti se gli abbonamenti diventeranno il modello dominante e un gruppo selezionato deciderà cosa arriverà sul mercato e cosa no. La via diretta dagli sviluppatori ai giocatori è l’unica strada”.
Per Vincke, “in un mondo simile per definizione la preferenza del servizio su abbonamento determinerà quali giochi vengono fatti. Credetemi – non lo volete”.