Questa è un’intervista che ho fatto a Pietro Polsinelli dello studio italiano Open Lab durante Milan Games Week. La puoi anche ascoltare in podcast se preferisci.
Roller Drama, invece, lo puoi aggiungere alla lista desideri su Steam.
Massimiliano: Presentati.
Io sono Pietro Polsinelli, sono di Open Lab, che è un piccolissimo studio indie di sviluppo di videogiochi con base a Firenze, composto da quattro partner. Noi sviluppiamo giochi applicati da una decina di anni, ma nel 2019 abbiamo rilasciato il nostro primo gioco commerciale, Football Drama, e ora stiamo per rilasciare il secondo, Roller Drama.
Roller Drama, se vogliamo, è meno leggibile di Football Drama, che, per chi non lo sa, univa carte e calcio con intermezzi in cui l’allenatore viveva la sua vita. Roller Drama quanto riprende da Football Drama, al di là di un pezzo di nome, e dove siete andati per esplorare aree nuove sia per la narrazione sia per le meccaniche del gioco.
Roller Drama riprende l’idea di parlare di tutte le dimensioni dello sport, coinvolgendo anche la vita degli atleti. Football Drama parlava del calcio poetico, di soli uomini, magari interessante come atmosfere. Però volevamo invece fare un gioco più contemporaneo.
Il roller derby è un gioco prevalentemente femminile e in questo gioco sei l’allenatrice di una squadra di cinque ragazze e vivi con loro. Come in Football Drama c’è una forte componente narrativa, ma le meccaniche sono diverse e il gioco è quattro volte più complesso e più grande. In Roller Drama c’è una meccanica, per esempio, di esplorazione dell’ambiente in cui si vive. Come stile, è ispirato a una sit com: convivere con queste cinque ragazze crea una serie di situazioni e problemi tragicomici che tu, come allenatrice, devi riuscire a gestire. Questo si unisce al fatto di giocare effettivamente le partite e arrivare in fondo vincendo e senza cercare di portare allo sfinimento le ragazze. Cose che, magari, in Football Drama erano accennate.
Football Drama è nato come gioco per mobile, anche per via delle nostre esperienze precedenti. Sviluppare su desktop un gioco con una narrativa interattive come Roller Drama è un’impresa di dimensioni diverse, ecco.
Hai descritto Football Drama come legato a un modo di concepire il calcio ormai passato, lo hai definito un calcio da maschi, vecchio stile. Roller Drama invece ha un cast femminile e, dalla tua descrizione, ci sono elementi che vogliono interpretare la società di oggi. Sbaglio a trovarci un collegamento tra come avete interpretato Football Drama e ora Roller Drama per come anche voi intendete il passaggio e l’evoluzione che le società ha fatto nelle sue percezioni, anche nello sport?
In Football Drama si parlava dello sport mainstream. C’era anche una parte di critica, tentavamo di raccontare la FIFA e le bizzarre vicende, che oggi sono forse ancora più evidenziate dai mondiali, per esempio: queste strutture corrotte e burocratiche che ci stanno dietro.
In Roller Drama è un po’ diverso perché lo sport a cui ci ispiriamo, che esiste ed è pratico, è gestito dal basso: non c’è una federazione dal basso, le federazioni sono gestite dalle giocatrici stesse. Ci sembrava interessante. Poi c’è il fatto che le ragazze che giocano a questi sport sono sempre molto particolari e c’è un movimento generale della consapevolezza della fisicità femminile, dell’indipendenza, di poter giocare a uno sport di full contact ed essere mamma allo stesso tempo. Ci sono dei documentari molto interessanti su questo mondo che ci hanno ispirato all’inizio e che abbiamo cercato di trasporre nella narrativa. Vedremo se ci siamo riusciti.
Prima ho visto dei bambini giocare a Roller Drama. Per voi il feedback di quel tipo di pubblico, meno esperto del videogioco e quindi riesce meno a leggere cosa deve fafre, quanto è importante per capire il grado di accessibilità del vostro gioco?
Il fatto di far vedere un gioco a un pubblico diverso è fondamentale. Lavorandoci, alcuni difetti enormi o cose che a noi sembrano ovvie e magari non lo sono. È un feedback utilissimo.
I nostri giochi, per il tipo di temi che trattano, come autostima o depressione, sono per un pubblico abbastanza adulto…
Un pubblico consapevole, diciamo.
Sì, consapevole. Penso che non sono per bambini. Non sono disadatti: non c’è gore o violenza. Però i temi sono particolari, ecco.
Hai parlato di un gioco che, al di là dell’aspetto sportivo, ha una storia di persone. Quando ho giocato prima c’era una musica che sembrava ritmare le pulsazioni del cuore. A livello di composizione scenica, luci, che scelte avete fatto sia per le partite sia per i momenti fuori dalle partite?
Assolutamente. C’è un forte legame fra situazione e musica, ambientazione ed effettistica. In un videogioco, come in un musical o in un teatro, bisogna legare tutte le dimensioni. Abbiamo fatto tanto lavoro in questo senso: anche quando interagisci con una delle cinque ragazze ci sono musicalità diverse, anche a seconda delle situazioni. Il ruolo della musica per trasmettere aspetti più emozionali delle situazioni è importantissimo.
Bisogna dire, però, che nei videogiochi ormai su questo c’è una grande consapevolezza, anche nelle piccole produzioni. Abbiamo tutti gli strumenti per gestirlo.
Come stile musicale, è un po’ rumoristico. Il musicista è Francesco Arcuri, che produce anche strumenti musicali e macchine per fare suoni. Abbiamo usato il suo materiale per creare un ambiente sonoro particolare.
Prima Football Drama. Oggi Roller Drama. Possiamo dire che Open Lab vuole creare questo filone o è un caso che siano così legati?
Credo che il filone finirà qui per quel che riguarda sport e narrativa; ma non il fatto di voler parte giochi con meccaniche accessibili, molto popolari, delle tematiche più difficili. Vogliamo assolutamente continuare su questa linea.
Volevamo cambiare genere: il prossimo gioco sarà probabilmente nell’ambito strategico. Anche lì vorremmo sperimentare. Nei giochi strategici spesso c’è una narrativa non così scritta. Noi invece vorremmo fare un gioco di strategia con un’evoluzione narrativa. Potrebbe essere interessante.
Come stampa ci interroghiamo spesso di cosa significhi oggi, dopo tanti anni, uno sviluppatore indipendente. Questa etichetta è stata presa dalle aziende ed è diventata marketing. Per te, come oggi ci si può definire indipendenti?
Il termine “indie”, come categoria, è stata presa da produzioni come Devolver, che non hanno niente di indie: hanno budget giganti, valgono…
Se non sono quotate in borsa direttamente…
In questo caso lo è, vale diversi miliardi di dollari. Non capisco bene come si possa parlare di indie in quel caso.
Nel nostro caso, siamo uno studio che ha totalmente auto-prodotto questo gioco. La mia esperienza è che essere indipendenti nelle tematiche che tratti e lavorare con queste aziende da una dimensione in su semplicemente non è possibile. E quindi temi che anche remotamente possano spaventare o rendere più difficili le dinamiche di marketing vengono esclude dalla produzione.
Essere indipendenti e trattare certi temi è un legame che è strettissimo, non ha perso di senso. È l’uso del termine che è diventato leggero.
Ovviamente parliamo di un’etichetta, che quindi sintetizza in maniera spesso sbagliato: una sola parola non riesce a riprendere, come ombrello, tutti. Secondo te, è così importante averne un’altra di etichetta che vi rappresenti o riprendere l’etichetta originale, oppure è l’industria che parla di se stessa senza andare a intercettare quello che, diciamo, c’è “là fuori”?
Dell’etichetta possiamo anche farne a meno. Non mi preoccupa il destino dell’etichetta. Spero che sopravviva la possibilità di fare produzioni indipendenti; e questo, in realtà, non mi sembra avere una grande prospettiva. Il livello di qualità e costi richiesti anche per piccoli giochi è sempre più alto.
Ci sono grandissimi brand che probabilmente occuperanno anche questi spazi, come stanno già facendo: Netflix, Amazon. Tutti questi cominciano a produrre giochi e occupare nicchie. Sicuramente il marketing di queste produzioni indipendenti diventa sempre più difficile. Tendenzialmente è un mercato che si sta restringendo dal punto di vista della pura indipendenza. Quello succederà nessuno lo sa.
Proprio per pareggiare i conti con le grandi aziende, subentrano gli aiuti, soprattutto finanziario, statali. Open Lab è una delle aziende che ha usufruito del tax credit nella prima sessione. Ora la dotazione è stata aumentata. Per te, parliamo di una situazione sufficiente? Quanto dobbiamo celebrare e quanto dobbiamo essere consapevoli che stiamo facendo dei passi che andavano fatti dieci anni fa?
Quel che è stato fatto è eccellente. È una sorpresa che sia passato. Vero, siamo in ritardo, ma sarebbe folle lamentarsi di un’iniziativa così lodevole. Per le piccole imprese è un aiuto significativo. Soprattutto in Paesi dove c’è una tassazione così alta. Il problema però è la redditività.
Questa misura può fare molto e secondo me lo sta facendo. La situazione italiana è strana: abbiamo quasi il PIL della Francia, ma l’industria videoludica è un centesimo…
Anche a livello di cultura attorno al videogioco.
Esatto, ma anche di mercato interno. Non tanto di dimensioni, ma di qualità del mercato. Siamo rimasti molto indietro. Iniziative che ci fanno recuperare vanno incoraggiate, non scoraggiate. Io spero che continuino e si rafforzino.
Prima hai evidenziato, anche con un certo orgoglio, che [Roller Drama] è auto-prodotto. Mettimi dietro le quinte rispetto ai ragionamenti sulla scelta o meno di appoggiarsi a un publisher.
Noi il publisher lo abbiamo cercato, ma non lo abbiamo trovato. Noi cerchiamo un publisher a certe condizioni. Noi facciamo queste produzioni e il fatto di trattare certi temi, avere certi stili, non usare tecniche di vendita come le micro-transazioni ci rende, per certi tipi di publisher, meno appetibili. Alla fine, non abbiamo raggiunto un accordo con un publisher.
Siete meno di tendenza.
C’è un po’ più di rischio e il rischio ai publisher non piace. Questo anche perché il mercato è drogato da un eccesso di offerta.
Comunque, è legato a quello che dicevo prima: i publisher sono più selettivi anche perché sentono sempre di più, che loro stessi sono entità indipendenti in un certo senso, la pressione delle grandissime produzioni, che tendono a fondersi. Anche per loro è più problematico correre dei rischi. Un meccanismo che spinge loro a certi comportamenti, che poi si ribaltano sugli indie.
È tutto il mercato che si bassa sempre di più su fusioni e concentrazioni, che è buffo perché è opposto al principio del mercato, che dovrebbe essere la concorrenza. La società contemporanea si basa su un mercato e stritolare tutti gli altri: è così che funziona il capitalismo moderno. Lo viviamo sulla nostra pelle anche in questo mercato.
Spesso il mercato mobile viene definito un mercato che ha caratteristiche proprie. Voi con il primo gioco avete deciso di puntare su questo. Che esperienze avete avuto e che lezioni avete imparato?
Siamo usciti su mobile “premium”, che è quasi una piccolissima frazione, economicamente quasi irrilevante. Quando si parla di mercato mobile dei giochi, si parla di un mercato con una sua logica e un suo flusso produttivo: si potrebbe dire che è quasi un’altra industria. È estremamente specialistica, richiede numeri di accesso molto alti, i prodotti devono essere gratuiti e poi resi redditizzi con altri mezzi. Un po’ come dire giochi tripla A, che hanno un flusso di produzione diverse da quello indie.
Non lavoro, non conosco molto bene del mobile, non ne so molto.
Ogni tanto ho l’impressione che avere successo in questa industria spesso sia fuori dal controllo delle aziende stesse, che subentrino fattori fortuiti. Io che, per esempio, oggi sto intervistando te, ma per limiti di tempo non riuscirà a intervistare altri; un video su TikTok che per motivi fuori dal controllo va meglio di altri; un publisher che salta un incontro e incontra qualcun altro. Quanto di ciò che ho appena detto e quanto sono fuori strada?
Per me sei un po’ fuori strada, per fortuna.
Ciò che mi piace del gaming è che i giocatori sono meglio del mercato. Secondo me è ancora un settore dove un lavoro sulla qualità, se insistito, se fatto con ostinazione, in genere funziona. Non tanto nel mercato mobile, ma nel resto lo vediamo: produzioni gigantesche non funzionano perché ci sono problemi di design e i giocatori se ne accorgono; produzioni indipendenti, com’è successo tante volte, invece hanno un successo incredibile.
A me interessa ancora questo mercato perché vedo un’intelligenza dei giocatori. Percepiscono, magari a volte in maniera non consapevole, la qualità del lavoro fatto. Questo un po’ a tutti i livelli.