Spesso parliamo della tossicità attorno ai videogiochi come se fosse qualcosa di astratto: una nuvola nera che ogni tanto appare, ma non si sa bene che fa, come e quando. E se di qualcosa non si conoscono bene contorni, confini e forme, allora non si sa bene nemmeno come placarla o eliminarla del tutto.
Parliamo di un tipo di tossicità che non vale solo per i videogiochi ed è tangenziale anche ad altre aree del web e del digitale; ma che con i videogiochi – basti pensare al GamerGate – trova spesso terreno fertile: minacce di morte rivolte a chi sta scrivendo una storia o programmando un videogioco; insulti e ondate di odio sui social nei confronti di persone che non hanno niente da cui spartire con la decisione, per esempio, di rinviare un videogioco, ma vengono indicate come colpevoli.
Non è un caso, peraltro, che nella maggior parte dei casi queste persone – quelle che ricevono le minacce, le accuse e gli insulti – siano anche quelle che vengono considerate, da una porzione di pubblico, come quelle più deboli: donne, persone transgender, persone di colore.
Stephen Totillo su Axios ha riportato alcuni dati che sono emersi dall’annuale indagine che analizza lo stato dell’industria e che chiede conto alle persone che ci lavorano come vedono gli ambienti di lavoro, gli investimenti delle aziende e altro ancora.
Ecco, da questa indagine è emerso che, delle 2.300 persone intervistate, il 75% ritiene che la tossicità dei giocatori sia un problema “serio” o “molto serio”. Il 40% lo ha anche vissuto sulla propria pelle.
C’è anche un lato positivo. O almeno un dato che lascia pensare che stia aumentando la consapevolezza che certi atteggiamenti non sono accettabili e vanno contrastati: il 68% ha risposto che la società per cui lavora, quando si è trattato di agire, ha fatto concretamente qualcosa. In un quinto dei casi, invece, non ha fatto niente. Una persona ha raccontato di aver ricevuto minacce di morte e che persino la sua famiglia è stata coinvolta: eppure, la società per cui lavora ha “ignorato le mie preoccupazioni”.
I social sono ovviamente il terreno dove azioni proliferano perché accorciano le distanze fra chi lavora nei videogiochi e chi i videogiochi li compra (sentendo di essere così proprietario del destino di quella società e che la sua opinione è sempre meritevole di attenzione: ma sto divagando).
Ed è un problema che non nasce dal nulla. Come tanti altri problemi, è il risultato di anni di ammiccamenti e di colpi di gomito, da parte delle aziende, a una fetta di pubblico che, in questo modo, ha sentito di avere quel potere; e quel potere lì, quella sensazione di essere al centro dei pensieri delle società, ha creato un mostro. Di cui oggi cerchiamo di imbrigliare i tentacoli.
Una persona di quelle intervistate per l’indagine ha detto: “Le grandi aziende sembrano aver paura che i giocatori tossici rappresentino il loro pubblico più affezionato senza pensare che stanno impattando una fetta molto più grande del loro pubblico”.