Sui videogiochi che “creano dipendenza”

Stai leggendo Insert Coin: una newsletter con cui racconto i videogiochi, il loro mercato e gli sviluppatori.
Ogni domenica invio una nuova puntata.

Già in altre circostanze ho scritto di come e perché dovremmo ragionare di come parliamo dei videogiochi e dei termini che usiamo. Perché i termini, le espressioni e le idee che usiamo ci dicono qualcosa di come intendiamo il videogioco e l’esperienza con esso.

Per capire, innanzitutto, e poi eventualmente per valutare se si sta facendo bene o male; se c’è un altro modo o no; se ci sono significati meno superficiali a cui non stiamo dando il giusto peso e che invece andrebbero indagati alla luce del sole.

Capita di frequente, per esempio, che quando si parla di videogiochi particolarmente coinvolgenti si dica che “questo videogioco crea dipendenza” o che “non riesco a smettere” o ancora che “è come una droga”. Parliamo dei videogiochi, in altre parole, con le stesse espressioni che usiamo per le sostanze stupefacenti.

Lo si fa, peraltro, con una connotazione positiva: un gioco da cui non riesci a staccarti è coinvolgente, interessante, “da provare”; paradossalmente, un altro videogioco da cui non ci si sente radicalmente invischiati è quasi “strano”: è un’esperienza a cui manca qualcosa.

Bada: l’ho fatto anch’io. E per molto tempo, ho parlato allo stesso modo di videogiochi da cui ero rapito: Hades e Vampire Survivors ne sono due esempi recenti.

Nell’ultimo periodo, però, mi sono chiesto se questo modo di parlare del videogioco sia un bene o un male. Se sia necessario che ci fermassimo un momento e provassimo a ragionare se è il caso di parlare del videogioco assumendo che sia positivo associarlo agli effetti – dipendenza, alienazione, evasione, una vaga mancanza di controllo sull’attività – che invece sono tipici di altre sostanze, altre situazioni, altre sfere.

Non perché di per sé io creda che parlare del videogioco in questo modo possa effettivamente rafforzare l’idea che il videogioco sia una droga al pari della cocaina. Ma proprio perché, invece, riteniamo che possa avere degli effetti così potenti, così profondamente leganti, così trascinanti, allora, forse, sarebbe il caso di indagare di più le ragioni – a livello di design, di meccaniche, di input, di storie, di grafica – che i videogiochi sfruttano per mantenerci lì, incollati a uno schermo.

Se il videogioco viene inteso come un dialogo fra oggetto virtuale e una persona e quel dialogo viene perpetrato attraverso la stessa dialettica di chi assume sostanze stupefacenti, rimane un dialogo?

Se il videogioco viene considerato un prodotto culturale, allora va bene se “non riesco a smettere” ed “è come una droga”?

Se alcuni videogiochi nascono per parlare di qualcosa – o per lanciare un messaggio o una riflessione – va bene se non riusciamo a mantenere un rapporto più distaccato nei loro confronti?

Non credo che esista una risposta univoca a questa questione; né sono sicuro che questa sia davvero una questione, a dirla tutta. Allo stesso tempo, questa caratteristica del videogioco mi affascina e mi spaventa contemporaneamente.